LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI
Ma veniamo - senza alcuna intenzione di paragonarle, neppure fra loro, a livello qualitativo, ma solo in
merito a come usano l’espediente oggetto del post - a opere ben più recenti.
Nel bellissimo “Hereditary –
Le radici del male” di Ari Aster (2018), la famiglia di Annie è un microcosmo in cui, in un meccanismo
da tragedia greca, si manifesta il karma familiare, quel male ereditario che suo malgrado la stessa Annie
contribuisce a perpetrare. Non a caso Annie costruisce miniature, e il modellino a cui sta lavorando è
proprio la casa del film, come ci mostra la telecamera che, nelle scene iniziali del film, ci porta al suo
interno e poi scivola fuori, nella realtà filmica (una tecnica, quella della telecamera che precede gli attori
negli ambienti e vi indugia, che sarà usata anche in altri momenti nel lungometraggio).
Qui la presenza del
modello consente un gioco di specchi, non solo in senso fisico ma anche esoterico: ciò che è dentro, è
fuori. L’ereditarietà si manifesta anche nella propensione artistica, diciamo così, delle donne di famiglia,
nella loro urgenza di rappresentare il reale; ma traslando, il talento di Annie nella figlia si deforma,
diventando grottesco (pensiamo all’armonia delle sue miniature a paragone con i brutti e inquietanti
ritratti di famiglia abbozzati da Charlie, così come l’aspetto fisico di quest’ultima è una distorsione della
bellezza materna).